La grammatica e la pratica
Nella scuola di lingua italiana per stranieri in cui ho lavorato avevo, fra le altre cose, il compito di valutare gli studenti non principianti in arrivo. La valutazione era indispensabile per poterli inserire nel corso adeguato alla loro competenza linguistica.
Da un rapido calcolo, approssimato per difetto, credo di aver personalmente valutato in trent’anni non meno di 10.000 studenti. Mi pare un numero congruo per potere azzardare qualche considerazione.
Più della metà degli studenti erano europei, il resto si divideva tra asiatici (principalmente giapponesi e coreani), nordamericani, sudamericani e in percentuale minore africani. Le ragioni per cui studiavano erano principalmente tre: amore per il nostro paese e la nostra lingua, motivi di studio o di lavoro. E comunque tutti, chi per piacere, chi per dovere, avevano l’obiettivo di parlare, comunicare in italiano, lingua che definivano “una musica”.
Dunque, per tanti anni mi sono ritrovato davanti persone che si possono suddividere sostanzialmente in tre gruppi: il primo, il più numeroso, costituito da persone che avevano soltanto studiato la lingua italiana nel loro paese; il secondo da chi aveva studiato e potuto anche praticare un po’ la lingua con italiani; il terzo gruppo da persone che non avevano studiato, ma avevano una considerevole pratica linguistica con italiani.
I criteri che guidavano la mia scelta nell’assegnazione del corso giusto per lo studente erano:
- valutazione della conoscenza degli elementi della morfosintassi (un test scritto forniva adeguate informazioni),
- valutazione della correttezza e della scorrevolezza della lingua parlata (gli elementi utili per valutare mi venivano forniti dalla conversazione che seguiva il test scritto).
Pur consapevole dei tanti fattori che incidono sul percorso di apprendimento della lingua, come il livello di scolarizzazione e la ‘distanza’ della lingua madre dall’italiano, tanto per citarne un paio, qualche considerazione mi sento di poter offrire come spunto di riflessione. Se non altro per non disperdere un bagaglio di esperienza che considero prezioso.
In generale gli studenti del primo e del secondo gruppo avevano una conoscenza della grammatica più solida degli studenti del terzo gruppo, ma presentavano gravi carenze nella lingua orale, con difficoltà rilevanti nella partecipazione ad una conversazione con un madrelingua, difficoltà che pregiudicavano la possibilità di sviluppare rapporti sociali in tempi ragionevoli.
In generale gli studenti del secondo e del terzo gruppo, che avevano in comune una pratica linguistica con madrelingua italiani, avevano una confidenza con la lingua orale maggiore dei componenti il primo gruppo. Erano cioè più capaci di districarsi in un’interazione orale con un madrelingua.
Sembra la scoperta dell’acqua calda: è ovvio che chi fa più pratica è più abituato a partecipare a conversazioni con una persona italiana. Non è ragionevole confrontare chi studia e basta nel proprio paese con chi ha la fortuna di avere una persona italiana con cui fare pratica, o, a maggior ragione, con chi può permettersi di stare in Italia e viverci parlando con gli italiani.
Eh, già, la pratica. Come confutare la tesi che con la pratica si impara? Andiamo un poco in profondità. Si sta discutendo sulla capacità di partecipare a reali conversazioni con persone di madrelingua. Ma davvero chi non conosce un italiano o non sta in Italia non può sviluppare la sua competenza orale, sia nella produzione che nella comprensione?
Nella scuola dove ho lavorato per tanti anni c’è un Dipartimento di Formazione. Si svolgono corsi per formare insegnanti di lingua come lingua seconda. Verso la fine del corso di formazione i partecipanti, i futuri insegnanti, avevano questo compito da svolgere: “A questo punto del corso hai a disposizione molte tecniche per insegnare. Immagina un tuo studente principiante su un’isola deserta, fra un mese verrà in Italia e può svolgere una sola attività per prepararsi. Quale attività didattica è più utile per prepararsi?” La risposta appropriata è: comprensione della lingua orale. Ascoltare, ascoltare e poi ancora ascoltare italiani che parlano. Se avrà alle spalle un’esposizione di molte ore di lingua parlata forse sarà meno paralizzato dal flusso di parole con cui sarà investito quando metterà piede in Italia, forse riuscirà a capire un po’ quello che quel simpatico italiano gli sta dicendo e potrà in qualche modo rispondere con una parola, una piccola frase, con gli occhi, con un gesto: insomma tutto meno che scena muta. Se riesce a instaurare una comunicazione con il suo interlocutore, lo studente prenderà coraggio e si sforzerà di continuare. E se continua non potrà che migliorare.
Tante, tantissime volte ho vissuto l’esperienza di avere di fronte una persona che aveva speso tante ore del suo tempo a studiare i meccanismi di funzionamento della lingua, ma non altrettanto tempo a prepararsi a partecipare ad una conversazione.
L’obiezione che studiare una lingua straniera nel paese in cui si parla è certamente meglio che studiarla nel proprio paese, in quanto “si vive” in quella lingua, è senz’altro valida.
A questa obiezione, avanzata da tutti i colleghi che ho incontrato all’estero, ho sempre risposto che ero d’accordo con loro, però li ho invitati a fare una riflessione, anzi un rapido calcolo: quante ore del loro corso spendono per insegnare la “grammatica” e quante ore per prepararli a conversare, facendogli cioè ascoltare lingua autentica e proponendo attività di produzione orale libera. Se c’è sproporzione a favore della “grammatica” non ci si può lamentare che i propri studenti una volta in Italia non siano capaci di partecipare ad una conversazione, obiettivo primario di chi studia una lingua straniera.
Spiegare nei minimi dettagli uno stile di nuoto, non garantisce che una volta in acqua si sappia nuotare.