L’italiano, lingua di libertà

Gli hanno chiesto perché definisca l’italiano una lingua di libertà e questa è l’argomentazione molto interessante di Adrian Bravi, scrittore argentino che vive in Italia e scrive in lingua italiana. Ospite al Congresso Internazionale della Società Dante Alighieri che fa il punto sull’uso dell’italiano nel mondo, Adrian Bravi parla della sua esperienza.

La lingua, a differenza dei paesi con confini, non ha frontiere, no?  Nessuno può rivendicare una proprietà nei confronti della lingua… la lingua è di tutti, di chi la parla e la scrive. Io sono molto felice di potere esprimermi in italiano. E credo che il binomio libertà e lingua a volte vadano insieme. Leggo un brevissimo passaggio che sta in un libro che si chiama Sud 1982 che ho scritto nel 2008. Dice così, perché un po’ mi riguarda questa cosa, dice: Con il passare del tempo avevo cominciato a sentire che prima o poi me ne sarei andato dal mio paese, magari in un posto dove avrei potuto pensare e parlare in un’altra lingua, perché lì mi sentivo come prigioniero delle parole. Tutto mi ricordava le Malvine, la trincea, i piedi inzuppati, gli elicotteri. Me l’aveva detto mio padre: «Dovresti imparare da capo una lingua, così puoi pensare e sognare senza il ricordo di quelle vecchie parole. Nuova lingua, nuova libertà». È stata la prima volta che gli ho dato ragione. Ecco, a me è successo qualcosa del genere, nel senso che… comunque quando sono arrivato in Italia mi sentivo ancora molto legato alla mia lingua madre, lo spagnolo, e per ben più di dieci anni ho continuato a scrivere in spagnolo. Tanto è vero che il primo romanzo che ho scritto l’ho scritto in spagnolo. Poi è successo che era nato mio figlio e… non lo so…da quel momento in poi ho cominciato a scrivere in italiano. Quindi per me l’italiano oltre che essere una seconda lingua madre mi verrebbe da definirla quasi la ‘lingua figlio’, no? perché è proprio dopo la sua nascita che ho cominciato a scrivere in questa lingua. E scrivere in italiano mi ha dato… una libertà senz’altro, mi ha dato la possibilità di fare una ricerca anche interiore, stilistica, perché vedere la lingua dal di fuori… quando uno è di madrelingua dà per scontato tutto, quando si scrive in una lingua acquisita non si può fare questo. Quindi vedere la lingua dal di fuori ti porta a confrontarti con ogni singola parola, con ogni singola virgola ed è un lavoro che in parte va piano piano, come forgiando una stilistica, no? E infatti vedo con l’italiano che il ritmo dell’italiano, il timbro dell’italiano mi ha dato una stilistica completamente diversa rispetto a quello che avevo in spagnolo, per quello credo che una lingua non sia solo una… come dire… uno strumento di comunicazione, è un punto di vista sul mondo, noi guardiamo il mondo attraverso una lingua, lo interpretiamo attraverso una lingua. Se vogliamo, la lingua è un’ermeneutica del mondo e quindi scrivere in un’altra lingua, in questo caso nell’ italiano, non è semplicemente applicare un corpo grammaticale a un’idea, ma è un modo di imparare a guardare il mondo e a esprimerlo con un’altra grammatica, con un altro ritmo. E il tempo dell’italiano è completamente diverso rispetto a quello dello spagnolo. Io ormai mi sento… quasi più della metà della mia vita l’ho vissuta in Italia, quindi per me prevale. Due lingue allo stesso livello in una persona non coesistono, una prevale sempre sull’altra e in questo momento storico della mia vita l’italiano, ecco, prevale sulla mia lingua madre che vedo sempre più come una lingua quasi sbiadita dopo tanto tempo. Ecco.”

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