La canzone e lo stato d’animo
Questo è il racconto di una lezione di ascolto, attività svolta per sviluppare la capacità degli studenti di capire la lingua orale.
L’attività di Ascolto autentico presuppone da parte dell’insegnante uno sforzo titanico: convincere gli studenti a rilassarsi, ad abbandonarsi al flusso di suoni che arrivano ai loro orecchi, a non angosciarsi per il fatto di non capire. Quante volte bisogna ripetere che il loro compito è soltanto ascoltare, che più tempo passeranno ad ascoltare e più diventeranno bravi a capire. Ma nonostante tutti questi nostri rassicuranti consigli, molto spesso vediamo dipinta sulla faccia dei nostri studenti la delusione per non aver capito. E allora ci domandiamo dove abbiamo sbagliato, ci creiamo dei sensi di colpa, ci cresce dentro l’impulso di aiutarli, dargli qualche informazione che li possa condurre almeno al fatidico “senso generale”.
Vorrei sottoporre all’attenzione di chi quotidianamente sopporta il martirio sopra descritto uno strano fenomeno di cui sinceramente ho difficoltà a cogliere le ragioni profonde.
Dunque, ultima ora di un venerdì. Ho deciso di far ascoltare alla mia classe (primo livello intermedio) una vecchia canzone di Lucio Battisti: Innocenti evasioni.
Ho fatto ascoltare la canzone due volte. Poi ho diviso la classe in due gruppi. Poi ho detto: “Vediamo chi ricostruisce la storia più simile a quella raccontata nella canzone”.
Nessuno studente ha detto che era troppo difficile, nessuno studente ha detto che aveva capito pochissimo, nessuno studente ha detto che era “troppo rapido”.
Ogni componente del gruppo ha cominciato ad esprimere supposizioni, delle quali portava a sostegno alcune parole che era riuscito a sentire; ogni componente del gruppo, ascoltando le ipotesi degli altri, le confrontava automaticamente con la sua e ne riceveva conferma oppure, quando erano diverse o in contrasto, ribatteva con calore.
Pian piano le ipotesi più strampalate o più strane venivano abbandonate e si verificava una certa uniformità fra le ipotesi rimaste.
Ho fatto riascoltare la canzone.
Di nuovo il gruppo si è lanciato nel lavoro di eliminazione di idee e ipotesi, nella riconferma, riformulazione e riorganizzazione di idee precedentemente espresse, nella presentazione di nuove supposizioni scaturite dall’acquisizione di nuove parti del testo.
Ho richiamato l’attenzione della classe ed ho chiesto che ogni gruppo nominasse il proprio rappresentante. I due rappresentanti hanno raccontato la propria storia.
Ho fatto riascoltare la canzone.
Uno dei due gruppi ha convenuto che la storia dell’altro gruppo era di gran lunga più “vicina” alla storia raccontata nella canzone.
In realtà la storia “vincitrice” aveva una trama abbastanza “vicina” a quella della storia della canzone, ma le zone d’ombra c’erano ancora, e numerose. Ma la cosa non mi ha certo stupito.
La cosa che invece mi ha sorpreso è lo stato d’animo con il quale gli studenti hanno lavorato.
La totale assenza di frustrazione per il fatto di non capire, la libertà nel lanciarsi in costruzioni fantasiose, la disponibilità a variare e a riformulare le loro storie: tutto ciò si verificava come se avessero sempre lavorato secondo queste modalità! E invece queste modalità venivano normalmente osservate con grande sforzo da parte loro e ricordate con grande dispendio di energia da parte mia.
Perché dunque questa differenza di disposizione d’animo di fronte a una canzone?
Ecco le due risposte che mi sono dato:
1) gli studenti attribuiscono all’attività dignità inferiore all’attività di un Ascolto autentico che abbia come oggetto una normale conversazione. Di conseguenza non si preoccupano;
2) gli studenti pensano che una canzone può essere interpretata in molti modi e perciò ogni interpretazione può avere un certo grado di attendibilità. Di conseguenza non si preoccupano.
Una considerazione riguardo alla prima risposta: è fuor di dubbio che sviluppare la competenza degli studenti a capire parlanti italiani che conversano precede, nella scala delle priorità, la competenza per quanto riguarda il capire le canzoni. E questo si desume facilmente considerando la frequenza con cui gli studenti ascoltano canzoni (più o meno una ogni dieci brani di conversazioni “normali”). Non mi nascondo tuttavia che il ritenere, da parte degli studenti, che una attività abbia dignità inferiore rispetto ad un’altra mi provoca una certa irritazione, ma tant’è.
La seconda risposta credo che valga la pena approfondirla.
Perché lo studente è rilassato quando ascolta una canzone ed è teso quando ascolta un normale dialogo? Ho visto studenti, che di solito scuotevano la testa dopo aver ascoltato un dialogo, lanciarsi in ardite e fantasiose supposizioni partendo dalle esigue parti del testo della canzone che avevano capito, senza preoccuparsi se le loro congetture fossero più o meno realistiche. Così facendo era come se dispiegassero una rete sempre più ampia, rete entro la quale andavano ad impigliarsi, negli ascolti successivi, altre parti di testo, che andavano a posizionarsi all’interno delle precedenti congetture. Tale collocazione provocava invariabilmente sostituzioni, aggiustamenti oppure orgogliose conferme di dati precedenti. Insomma un trionfo didattico!
Contemporaneamente mi mordevo le mani.
Ma perché non lavorano sempre così?
Perché considerano un normale dialogo come un qualcosa di indecifrabile e irraggiungibile? E, soprattutto, perché considerano sempre ciò che riescono a capire “quasi niente” o “pochissimo”?
Partiamo da un dato di fatto: mentre si sentono totalmente liberi di interpretare una canzone, altrettanto non succede nel caso di un dialogo. Forse per lo studente un normale dialogo non è altro che la vicendevole trasmissione di una serie di informazioni. Forse lo studente trascura tutta una serie di dati che appartengono all’area dell’affettività, dati che potrebbero, se adeguatamente presi in considerazione e approfonditi, aiutarlo nel difficile compito della comprensione; forse se lo studente esaminasse più a fondo quella sensazione che ha provato mentre ascoltava il dialogo, potrebbe giungere a risultati inaspettati.
Bisognerebbe chiedere allo studente di “interpretare” il dialogo. Bisognerebbe far assumere al dialogo la dimensione di un qualcosa che per una serie di accidenti cosmici è avvenuto in un certo momento e in un certo luogo, ed è un qualcosa di unico, un qualcosa di irripetibile che gli stessi parlanti, protagonisti dello stesso dialogo, non saprebbero interpretare in modo identico.
Forse bisognerebbe spiegare agli studenti che è vero che tutti loro ascoltano lo stesso dialogo, ma è altrettanto vero che su ognuno di loro il dialogo lascia un’impronta diversa e tale diversità consegue dalla loro inconfutabile diversità di esperienze, cultura, personalità, interesse, umore e tante altre cose ancora che interagiscono durante l’attività di ascolto. Se lo studente prende coscienza di questo, il brano di ascolto pian piano perde quell’aura di enigma indecifrabile e misterioso che frustra i tentativi di penetrare il suo significato ed assume sempre più l’aspetto di un ricco e vario cesto ricolmo di oggetti, alcuni conosciuti, altri meno, altri ancora del tutto sconosciuti, che solleticano la sua curiosità e lo stimolano sempre più ad affondare le mani all’interno del cesto per trovarne di nuovi fino a quando è stanco o è convinto di averlo vuotato.
Questo articolo è apparso nel Bollettino della scuola Dilit di Roma nel 1996. Nonostante l’età, mi sembra che offra ancora dei buoni spunti di riflessione.