La lingua dell’arte

Hans Hollein, The Imaginary Museum, 1987 (durante Documenta 8 a Kassel, Germania). Un'installazione di arte contemporanea, con enormi didascalie per piccolissimi quadri. Un’evidente provocazione.

Esistono due tipi di persone: chi davanti ad un quadro osserva prima il dipinto e poi legge la didascalia per saperne di più, e chi invece legge prima la didascalia e dopo osserva il quadro.

Non importa quale sia il tuo profilo, ma sicuramente sai che per leggere la didascalia ti sei dovuto muovere, inchinare, mettere gli occhiali o toglierli. Un lavoraccio.

Ed è per questo che negli ultimi anni in Italia i musei hanno cominciato a studiare le migliori possibilità per migliorare la comunicazione, la visibilità e l’accessibilità delle didascalie museali. A che altezza metterle, considerando che devono essere lette da persone in piedi ma anche da persone sulla sedia a rotelle. Che tipo di carattere tipografico usare, quale dimensione, quale sfondo per quale colore del testo. La lettura verticale (leggere un testo quando siamo in piedi) è uno dei motivi della fatica museale, quella stanchezza e quel mal di schiena che abbiamo dopo la visita ad un museo o ad un’esposizione. Quindi è anche importante non mettere didascalie o pannelli troppo lunghi… chi di noi vuole leggere più di trenta righe per ogni sala del museo? Nessuno. Quindi un difficile equilibrio tra informare e annoiare.

Perché non è solo una questione di come, ma anche di cosa. Infatti, vi siete mai chiesti chi scrive le didascalie? Storici dell’arte? Direttori di museo? Esperti di comunicazione? Grafici pubblicitari? Psicologi del linguaggio? Secondo le indicazioni della Direzione Generale Musei italiana, deve scrivere i testi una squadra composta da tutte queste figure professionali. Quindi un lavoro molto più complesso del mettere tre dati (autore, titolo, anno). Non è sempre semplice, anche perché dobbiamo considerare la possibile esistenza di dati non certi, attribuzioni non sicure, datazioni indicative. Il museo deve informare il visitatore del fatto che a volte i dati non sono sicuri,  ammettere l’incertezza è coinvolgere l’osservatore in un dibattito più ampio, in un dialogo in cui sono ammesse più possibilità, in cui il museo si presenta come un organismo vivo, in costante ricerca e aperto a nuovi studi e nuove prospettive.

Gli ultimi temi di dibattito coinvolgono proprio i titoli delle opere. Fino al XIX secolo era molto raro che un artista desse un titolo alla propria opera, ed è per questo che conosciamo molte opere con titoli che semplicemente descrivono (per esempio “Madonna col Bambino”) o che provengono dalla loro collocazione (“Pala di San Zeno”, perché si trova sull’altare della chiesa di San Zeno a Verona). Il problema sorge quando il titolo è stato dato da persone che compilavano inventari all’epoca o sono comunque titoli tradizionali, figli di un altro momento storico, come per esempio l’epoca coloniale. Un’azione museale postcoloniale è quella messa in atto dal Rijksmuseum di Amsterdam nel 2017: un lungo processo che mira a modificare nei titoli e nelle descrizioni dei quadri tutte quelle parole che venivano usate in epoca coloniale e che nel XXI secolo non sono più socialmente accettate. Inevitabilmente il dibattito sulla legittimità o meno di questa azione è ancora in corso. Non ci interessa stabilire se questo sia giusto o no, ci interessa invece osservare come anche nell’arte figurativa il ruolo della parola sia fondamentale.

Un esempio.

Che sensazione abbiamo di fronte a questo quadro di Boccioni del 1910? Possiamo pensare ad una raffigurazione di figure spettrali, o forse anziane, ricurve, forse quasi fantasmagoriche, che fluttuano, tutte verso la parte destra del quadro.

E come cambia la nostra percezione se leggiamo sulla didascalia che il titolo è “Quelli che restano”? E che fa parte di questo trittico?

Trittico “Stati d’animo”, Umberto Boccioni, 1910, Museo del Novecento di Milano

Improvvisamente le presenze spettrali e ricurve diventano persone che hanno detto addio a “Quelli che vanno” e se ne stanno tornando a casa, incurvati sotto il peso della tristezza e della malinconia. La parola cambia la nostra percezione dell’immagine. Le parole collaborano con le linee e i colori per completare la nostra percezione, che senza il titolo non sarebbe completa.

Allora qui potete decidere se volete prima osservare il quadro facendo volare la fantasia e solo dopo scoprire cosa voleva dire l’artista, o cominciare leggendo il titolo dell’artista e dopo osservare il quadro per scoprire come ha sviluppato e rappresentato la sua idea.

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