
Ho un ricordo preciso dei pranzi domenicali a casa dei miei genitori dopo che mi ero sposato.
Da una piccola verifica chiedendo ad amici, conoscenti, ex compagni di scuola e vicini di casa se anche loro avessero ricordi di questo tipo ho constatato che, pur con qualche differenza dovuta a diverse tradizioni regionali, lo schema del pranzo domenicale era pressoché uguale: un primo (lasagna, fettuccine o tortellini in brodo), un secondo di carne arrosto con contorno di patate e/o insalata e dolce, preparato dalla mamma o preso in pasticceria dai figli, torta o pastarelle.
La cosa che mi ha colpito di queste risposte è l’atteggiamento che avevano tutte le persone che mi rispondevano: sui loro visi si aprivano sorrisi che lasciavano trasparire il piacere e la nostalgia che quei ricordi gli procuravano. E tutti hanno affermato con convinzione che la qualità di quei piatti è pressoché inimitabile e quasi ormai perduta.
C’era poi, nel prosieguo del racconto, un altro aspetto comune che si presentava: la relazione che si stabiliva tra i nipoti e i nonni. Relazioni affettuose che si concretizzavano anche nel soddisfacimento dei gusti e delle golosità dei piccoli. È dunque frequente che i nipoti mantengano vivo, anche loro, il ricordo della cucina della nonna.
E a proposito di nonne, ho ritrovato, nei racconti che ho ascoltato, situazioni e particolari che ritenevo esclusivamente miei. Una premessa: amo la parmigiana di melanzane e sia mia moglie che le mie due sorelle, tutte e tre ottime cuoche, preparano parmigiane squisite…ma non come quella di mia madre e il mio giudizio è da loro condiviso. Tutte e tre hanno visto mia madre cucinare e hanno appreso anche qualche segreto della sua cucina, ma…niente da fare, quella di mia madre era più buona. Della bravura inarrivabile delle nonne in cucina erano pieni anche i ricordi delle persone consultate.
Constatare che i miei ricordi personali e familiari fossero patrimonio anche della memoria di altri mi ha dato una sensazione piacevole: la consapevolezza di far parte di una comunità, un senso di appartenenza rassicurante. Questa sensazione così vaga e così sommariamente descritta, l’ho ritrovata espressa con parole chiare e precise nell’intervista ad un antropologo, Marino Niola: “In fondo l’alimentazione, il modo di mangiare, scegliere cosa, come mangiare e con chi, è la spia più fedele dell’identità di un popolo. In realtà per capire un paese bisogna ‘mangiarselo’ prima di tutto. Poi si studia quello che quel paese dice di sé stesso, ma a tavola non si può mentire, a tavola non si mente.” Che meraviglia l’antropologia, andrebbe introdotta nei programmi scolastici già a livello elementare. Studiare l’uomo, come ci dice la Treccani, come “essere umano, considerato sia come soggetto o individuo, sia come membro di comunità” sarebbe, ai giorni nostri, davvero un antidoto contro l’ottusità, a tutti i livelli sociali. Far parlare i bambini anche delle loro abitudini alimentari, dei pranzi della domenica dai nonni, della cucina della nonna può essere un modo per renderli consapevoli dell’importanza di queste ritualità domenicali.


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