Jago nello spazio e sulla Terra
La scultura di Jago è potente. A partire dai sassi di fiume incisi e svuotati e ti chiedi come sia possibile. Li trovi in un angolo della prima stanza dell’esposizione insieme a Excalibur e alla Memoria di Sé: tiranti di metallo che aprono il guscio di pietra per far uscire l’uomo che è alla ricerca del bambino che era. Non sono storica dell’arte, racconto quello che le sculture dicono a me.
Jago è lo pseudonimo di Jacopo Cardillo, nato a Frosinone nel 1987. Lascia l’Accademia di Belle Arti quando un suo professore lo sconsiglia di partecipare alla Biennale di Venezia del 2011 dove era invitato a esporre il busto di Papa Benedetto XVI. Quando il Papa decide di lasciare il pontificato Jago rimette mano all’opera e spoglia il busto creando Habemus Hominem per rendere evidente l’umanità dopo il compito divino.
L’umanità emerge anche nella Venere posta in una stanza di specchi che ne ripete la figura devastata dal tempo il quale non è però riuscito a toglierle la grazia della posa. Si direbbe una “vanitas” sbattuta in faccia all’osservatore.
La Pietà di Jago ti colpisce con il suo dolore nudo. Un padre tiene fra le braccia il corpo inerte del figlio, non c’è bisogno di parole. Se riusciamo a trattenere l’emozione davanti a quest’opera sarà difficile riuscirci quando ci troviamo davanti al Figlio velato che riassume tutte le tragedie del nostro tempo. Quando distolgo gli occhi da questo corpicino coperto da un telo che lascia fuori solo una manina mi trovo a guardare dalla grande finestra di Palazzo Bonaparte un’inedita vista di Piazza Venezia piena di vita. Ho bisogno di riprendermi e penso alle altre due opere che mi hanno colpito.
L’Apparato circolatorio, un’installazione con trenta cuori in ceramica che ricreano la sequenza dei singoli movimenti del muscolo per un solo battito, mentre un video ne riproduce la dinamica e il suono. First Baby piccolo feto scolpito nel marmo, prima scultura che va nello spazio, nel 2019, nel corso della missione Beyond della European Space Agencies. Viene affidata all’astronauta capo missione Luca Parmitano, autore della bellissima foto scattata sulla base spaziale con la Terra sullo sfondo e dove la riporterà un anno dopo, a missione compiuta.
Ripenso a queste ultime due opere per darmi speranza, ricavandone un significato consolatorio ad uso personale: voglio trovare nella magnifica complessità del cuore una ragione di credere che lì, nella complessa natura umana, si possa trovare la capacità di amare. Nel bambino che nascerà voglio intravedere la capacità di osservare le cose dall’alto, dallo spazio dove è stato, dove tutto si riduce, poi, una volta sulla terra, saper guardare anche al particolare e in basso dove spesso non abbiamo voglia di guardare, per tendere la mano a qualcuno. Dice Jago in un video: “Immagina se Michelangelo avesse potuto mettere su Facebook il video in time-lapse della realizzazione del David! Ti prego! Lo voglio vedere! Mi sono innamorato dei grandi della tradizione perché mi stupiva che uomini normali, come me, con un cervello, due occhi, ma soprattutto due mani, potessero fare da soli cose così incredibili! E io ho detto ‘Ma io pure le voglio fare! Anche io!’ Se io da piccolo non avessi detto dentro di me ‘Io voglio essere più forte di Michelangelo, più bravo, più grande di lui!’ io non mi sarei mai entusiasmato, non avrei mai iniziato a fare scultura. Perché vedere una persona che sa scolpire, una persona che sa disegnare, una persona che sa mettere al mondo qualcosa, come un figlio, questo dà coraggio. E di questo hanno bisogno le persone, di coraggio!”
Ringraziamo Dario Bellini e Lilli Catizone per le foto.