“Disincanto”

Verso la fine degli anni 70 una delle più grandi agenzie pubblicitarie del mondo di quegli anni, la Saatchi&Saatchi, aprì una nuova sede a Roma. La città fu invasa da grandi manifesti dove c’era una persona che dava a un vigile urbano la notizia dell’apertura di questa famosa e prestigiosa agenzia internazionale. L’intenzione della persona era chiara: voleva stupire il vigile con la notizia di un grande e importante evento. La risposta del vigile: “Embè?”. Traduzione per i lettori non romani e non originari dell’Italia centrale: si tratta della forma troncata della parola “ebbene”, che nell’uso popolare e familiare diventa “embè “, simile nel significato a dunque, allora. In pratica il vigile con una sola parola esprime questo pensiero: “E allora? Dovrei forse sorprendermi?” Un altro esempio. Qualche anno fa un nuovo partito politico si presentò per la prima volta alle elezioni politiche. Il suo fondatore era (è) un attore comico (!) che si chiama Grillo e dunque i candidati venivano e vengono ancora chiamati grillini. Un giornalista chiese ad un cittadino romano che andava a votare la sua opinione sul nuovo partito. Ecco la sua risposta: “Il fatto è che qui noi nei secoli abbiamo visto di tutto. I barbari, i lanzichenecchi, i piemontesi, i burini venuti da fuori, il Liverpool che ci ha battuto ai rigori. Mo’ [adesso] persino i Papi non sono più italiani, vuoi che ci spaventiamo dei grillini?”.

Le frasi del vigile urbano e del cittadino che va a votare sono due illuminanti esempi di un modo di pensare, una filosofia della vita che ha come struttura portante il disincanto, la condizione cioè di chi ormai non ha più sogni o illusioni, di chi pensa di avere già sperimentato tutto della vita e ritiene che non ci sia da aspettarsi niente di buono dal futuro. L’origine, l’etimologia della parola ce lo spiega chiaramente, con il prefisso negativo dis– unito a incanto, cioè magia. Abbiamo dunque come risultato l’interruzione di una magia, di un incantesimo e il risveglio in una dura realtà.

Il termine “disincanto” descrive una visione della vita abbastanza fredda, un pessimismo di fondo che lascia poche speranze per un futuro migliore e può essere riferito a vari aspetti della vita. Può riguardare le relazioni sociali (… non bisogna fidarsi di nessuno …), le relazioni sentimentali (…l’amore vero non esiste …), la politica (… io non vado a votare, sono tutti ladri…), ecc.

Ma c’è anche un altro significato che questa parola porta con sé: il disincanto può essere il sintomo di un desiderio di cambiamento, il volere abbandonare una situazione imperfetta e negativa e rivolgere uno sguardo nuovo e costruttivo alla vita. In questo caso una persona disincantata sente la necessità di liberarsi da questa gabbia, da questa magia che lo imprigiona e può vivere il proprio disincanto come un momento di transizione, un passaggio ad una nuova consapevolezza e un punto di partenza per prendere nuova energia e costruire un futuro migliore.

Il primo significato si può definire negativo, risultato di un concreto realismo, mentre il secondo può apparire pieno di positività, ma ingenuo. Forse è, in parte, vero. Ma “il concreto realismo” ha spesso portato all’indifferenza. Ecco cose ne pensava dell’indifferenza il premio Nobel per la pace Wiesel: “Sono molte le atrocità del mondo e moltissimi i pericoli. Ma di una cosa sono certo: il male peggiore è l’indifferenza. Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. Il contrario della vita non è la morte, ma l’indifferenza. Il contrario dell’intelligenza non è la stupidità, ma l’indifferenza.

Le origini dell'indifferenza - VareseNews

Dobbiamo sperare che per disincanto prevalga sempre più il significato di liberazione, di nuovo inizio. Che diventi principalmente una bella parola da usare, priva di pesantezza e pessimismo. Lo spero anche per una personalissima ragione: mi scuso per il gioco di parole, ma trovo incantevole la parola “disincanto”. Provate a pronunciarla molto lentamente: è una musica, una danza leggera di quattro lievi e rotonde sillabe che rotolano armonicamente verso l’ultima vocale. Un piccolo valzer di dieci lettere.

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