
LEONARDO SCIASCIA
Continuiamo ad esplorare il fantastico libro di Ernesto Ferrero, “Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo”, una serie di ritratti di grandi personalità letterarie. Il brano che segue è tratto dal suddetto libro.
Quando negli anni Sessanta e Settanta Leonardo Sciascia arrivava in via Biancamano, di solito a metà mattina, per consegnare a Einaudi il dattiloscritto di un suo nuovo libro, si sedeva con l’aria di chi si tratterrà poco. Sulle labbra gli compariva un sorriso imbarazzato, accompagnato da una sorta di gorgoglìo basso e continuo, con cui sembrava scusarsi preliminarmente del disturbo e delle pochissime cose che avrebbe detto. Al pari del suo amico Calvino, non amava sprecare parole parlate perché le giudicava imprecise, quasi sconvenienti. Diceva cose che sembravano piccole note, appunti al margine di un testo già scritto, che necessitava di qualche commento per risultare comprensibile. All’editore non chiedeva niente, campagne pubblicitarie, appoggi a premi, trattamenti speciali. Si fidava. A ciascuno il suo.
I suoi libri erano dei parti rapidi e indolori. Non c’era una sola virgola da cambiare, sul dattiloscritto che batteva da solo, con due dita, su una Lettera 22 [modello di una macchina da scrivere Olivetti,ndr]. Quanto a noi, avremmo voluto dirgli quanto i suoi libri ci allargavano la testa pur conservando un margine di insondabile mistero, simile ai suoi timidi ed enigmatici sorrise, ma sentivamo che gli apprezzamenti verbali (“bellissimo”) finiscono per risultare generici e scontati. Come riuscire a dirgli il coinvolgimento, l’amaro e pensoso divertimento che procura Il Consiglio d’Egitto, storia di un’impostura così siciliana, così italiana?
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