Roma 2020, una città vuota
Il 22 marzo 2020, con un decreto del Presidente del Consiglio, il Governo ordinava a tutti gli italiani di non uscire di casa. Ecco l’articolo 1 del Decreto:
Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19, è fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati in comune diverso da quello in cui si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute.
Tutte le foto di Roma che appaiono in questo articolo sono state scattate da Alessandro Dobici, noto e affermato fotografo romano, nel periodo più duro della pandemia, quando non era possibile uscire di casa, quando tutti abbiamo imparato l’espressione “lockdown”. Le foto di questo artista, che poteva circolare grazie all’appartenenza al mondo della stampa, ci mostrano una Roma bellissima e agghiacciante al tempo stesso.
Eppure è la Roma che alcune categorie di lavoratori, in tempi normali, vedono tutti i giorni: i fornai che hanno appena finito di sfornare il pane, oppure i baristi che alzano la saracinesca del bar all’alba, o anche le guardie notturne che hanno finito il loro turno. Sono sicuro che questi lavoratori, nel periodo pre-pandemia, guardavano questi luoghi momentaneamente deserti con l’orgoglio di essere testimoni di uno spettacolo che non tutti i romani si godevano: una città che si beava degli ultimi momenti di torpore e pace in paziente attesa che la sua linfa vitale, i suoi abitanti, rifluisse nelle sue arterie, ripristinando il consueto aspetto della città che ha nel chiasso, la “caciara” in dialetto romano, un suo tratto distintivo.
Invece le immagini di quel periodo non suscitano orgoglio, ma angoscia, solitudine e paura.
Una situazione che lo scrittore Lodoli ha descritto così: ”È come se la città trattenesse il fiato, rannicchiata su se stessa, in attesa”.
Ci rendiamo conto che non riusciamo ad apprezzare le meraviglie architettoniche, la bellezza unica delle piazze e dei monumenti che il bianco e nero delle foto ci offre senza pietà. L’attenzione del nostro sguardo su queste foto si concentra molto più su alcuni particolari (la busta di un triste cestino di rifiuti che chissà da quanti giorni svolazza vuoto, un orologio che malvagiamente segna le 12:40, un’ora di punta, in una Via del Corso con 4 persone e un cane o anche il cancello di ferro dell’Hotel Plaza chiuso con una catena perché, essendo da sempre aperto, non ha una chiave). L’assenza delle persone che non animano le vie e le piazze spegne quella luce che normalmente brilla nei nostri occhi quando, in tempi normali, ammiriamo con orgoglio questa città.
È molto netta la convinzione che senza la vita, il movimento, la carne e le ossa degli umani tutti quegli spazi, quei materiali da costruzione, quei marmi così ricchi di storia restano muti e freddi, solitari e minacciosi. La città diventa un contenitore terribilmente vuoto che fa paura.
Sono passati solo tre anni. Per nostra fortuna la memoria è davvero misericordiosa: i brutti ricordi sbiadiscono e facciamo fatica a ricostruire i momenti più terribili. Appena “liberi” siamo corsi ad occupare le nostre strade e le nostre piazze. E Roma ha ritrovato subito la sua voce, la sua “caciara”.
Voglio ringraziare di cuore Alessandro Dobici: considero il servizio fotografico del suo archivio privato un dono prezioso. Per saperne di più su questo artista, ecco il suo sito: www.alessandrodobici.com