La lingua in televisione
Fino a pochi decenni fa, più o meno fino agli anni sessanta, la discussione riguardo allo stato della lingua che parlavano gli italiani era abbastanza chiara e condivisa. C’era una sorta di bilinguismo: il dialetto e la lingua italiana. Il dialetto si imparava in casa, con gli amici, al bar, insomma era la lingua della famiglia, degli affetti, delle relazioni sociali quotidiane. La lingua italiana si imparava a scuola, si doveva parlare a scuola, e il modello da seguire era la lingua che si parlava in televisione. Chiunque apparisse in televisione doveva usare una lingua grammaticalmente ineccepibile e priva di inflessioni dialettali. Questa impostazione educatrice, questo riferimento alla televisione come modello da seguire ha contribuito in modo decisivo a realizzare una sorta di unità nazionale linguistica.
Le cose cominciano a cambiare con le televisioni commerciali, che non avevano (hanno) nessun intento educativo. L’obiettivo primario delle televisioni private era (è) chiaro: divertire e fare soldi con la pubblicità. Oltre alle implicazioni sociali, economiche e politiche del nuovo fenomeno televisivo, lentamente ma inesorabilmente anche la lingua usata in televisione è cambiata. Una sempre maggiore partecipazione di gente comune ai programmi ha reso frequente l’uso di inflessioni dialettali o addirittura il dialetto. Quella che prima era una regola ferrea, cioè l’uso di una lingua standard corretta e senza tracce di inflessioni dialettali, venne sgretolata o, per usare un termine molto usato, l’uso del dialetto in tv fu sdoganato. In pratica in televisione si parla la lingua parlata tutti i giorni dalla gente comune, non una lingua che dovrebbe essere il modello di riferimento per parlare bene.
La televisione italiana non gode fama di indipendenza dal potere politico (eufemismo) e, poiché il potere politico ha il suo centro di comando a Roma, non è un caso dunque che la lingua parlata in tv oggi riporti pronunce e intonazioni tipiche del dialetto romanesco.
Il giornalista e scrittore Michele Serra ha coniato il termine “italiesco” che ben definisce questa nuova lingua: “……il nostro fortunato bilinguismo di partenza minaccia di essere travolto, o forse lo è già stato, da un ibrido approssimativo, più spiccio, più incolto e molto poco promettente. Potremmo definirlo italiesco: non più romanesco (o veneto, siciliano, ligure…) ma parecchio distante dall’italiano.” E fa degli esempi: “Non si dice sosciale, si dice sociale. Non si dice subbito, si dice subito. Non si dice mejo, si dice meglio. Non si dice sindagado, si dice sindacato. Non si dice disce, si dice dice.” Non mi pare un segno di irritazione da parte di uno strenuo difensore della purezza e della tradizione della lingua, mi sembra invece un’osservazione che conferma, semmai ce ne fosse bisogno, quanto sia negativa l’invadenza della politica anche nel campo della comunicazione.
Non tutti, ovviamente, parlano così in televisione, ma il peggioramento del livello linguistico è, in generale, indiscutibile. Sempre in numero minore i programmi che non sono coinvolti in questo degrado. Rai Tre è il canale televisivo che pone maggiore cura e attenzione agli aspetti culturali.
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Pier Paolo Pasolini, in un’intervista sulla Rai del 22 febbraio 1968, parla delle origini della lingua italiana.